Scoperti elementi di codifica della working memory

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 11 marzo 2017.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La scorsa settimana abbiamo presentato la dimostrazione nell’uomo dell’attività persistente di una rete distribuita a sostegno della working memory in un lavoro di Kaminski e colleghi, e in quell’occasione abbiamo introdotto lo studio di questa importante componente funzionale della nostra attività psichica, ripercorrendo alcune tappe degli studi che portarono alla sua identificazione. Riprendiamo idealmente quel testo, che può ben introdurre anche l’argomento del presente scritto, ossia la recensione di uno studio nel quale Leavitt, Pieper, Sachs e Martinez-Trujillo, hanno dimostrato l’origine dalla rete dell’attività dei neuroni della working memory ed hanno scoperto nel macaco elementi della sua codifica nell’attività degli insiemi di cellule nervose che la costituiscono.

L’importanza di questo lavoro consiste soprattutto nell’aver rilevato e dimostrato il collegamento fra la funzione della rete alla base della memoria di funzionamento, ossia del supporto corrente per l’elaborazione cognitiva della realtà, e quanto si rileva nei neuroni della corteccia prefrontale, considerati fin dalla prima identificazione “cellule della memoria a breve termine”.

Leavitt e colleghi hanno preso le mosse dalla tesi secondo cui l’attività neuronica della corteccia prefrontale dei primati associata alla working memory (WM) origina da strutture della rete di cui fanno parte gli stessi neuroni prefrontali. Le difficoltà, evidenziate anche in lavori recenti, di prevedere le proprietà di insiemi di cellule di questa rete a partire dalle proprietà dei singoli neuroni esaminati, hanno indotto i ricercatori a registrare insiemi neuronici nella corteccia prefrontale di macaco, analizzandone le proprietà in rapporto alla rete. In particolare, rilevando l’attività elettrica di gruppi estesi di cellule prefrontali appartenenti alla WM, hanno trovato evidenze a supporto dell’origine dell’andamento delle scariche dai processi in atto nel network ed hanno chiaramente identificato, negli insiemi di neuroni, elementi della codifica della WM che era stato impossibile rilevare nelle singole cellule.

Di estremo interesse il rilievo che la variabilità correlata della frequenza di “accensione” tra neuroni può migliorare la codifica della WM e che i neuroni non selettivi per la WM possono migliorarne la codifica quando entrano a far parte di un insieme funzionale.

(Leavitt M. L., et al. Correlated variability modifies working memory fidelity in primate prefrontal neuronal ensembles. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.1619949114, 2017).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Physiology, McGill University, Montreal, QC (Canada); Department of Physiology and Pharmacology, University of Western Ontario, London, ON (Canada); Department of Neurophysiology and Pathophysiology, University Medical Center Hamburg-Eppendorf, Hamburg (Germania); Division of Neurosurgery, University of Ottawa, Ottawa (Canada); Department of Psychiatry, Robarts Research Institute, Brain and Mind Institute, University of Western Ontario, London (Canada).

È forse opportuno ricordare come si è giunti a riconoscere in una rete di aree la base della WM.

Un contributo importante è venuto dagli studi neuropsicologici sulla memoria umana, che avevano dimostrato l’esistenza di una funzione convenzionalmente chiamata “magazzino a breve termine” e consistente nella ritenzione temporanea di informazioni che potevano essere utilizzate entro un lasso di tempo breve, trascorso il quale andavano perse. L’idea che questo magazzino temporaneo funzionasse come una memoria di lavoro a supporto di vari compiti cognitivi si trovava già in Hunter (1957), in Atkinson e Shiffrin (1968) e in Newell e Simon (1972), ma una sperimentazione sistematica per verificare l’esistenza di un tale apparato e per accertarne un ruolo nell’apprendimento, nella comprensione e nel ragionamento, fu condotta solo a partire dagli anni Ottanta da Baddeley, Vallar, Shallice e tanti altri[1]. Quell’approccio metodologico sull’uomo, prima dello sviluppo di tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale, naturalmente non consentiva di esplorare la base neurale dei processi ma, con ingegnosi stratagemmi, permetteva di comprendere se una facoltà funzionale potesse svolgere uno o più processi contemporaneamente.

Gli esperimenti seguivano l’approccio del compito doppio, in cui la capacità della memoria di lavoro era sistematicamente occupata dal compito di mantenimento di sequenze di cifre nel magazzino temporaneo, mentre si eseguiva una prova di ragionamento, apprendimento o comprensione. I risultati mostravano un disturbo nell’esecuzione di questi compiti, ma non una totale compromissione, quale si sarebbe avuta se la base neurale per il doppio compito fosse stata proprio e solo la stessa. Si avanzò, allora, l’ipotesi di una memoria di lavoro costituita da più componenti. In particolare, si propose un modello in cui un “sistema esecutivo centrale di controllo” svolgeva la supervisione e probabilmente conferiva unitarietà ai ruoli di sistemi dipendenti sussidiari, quali quello denominato “ciclo articolatorio o fonologico”, in grado di gestire le rappresentazioni simboliche legate alla parola, e quello denominato “blocco per appunti visuo-spaziale”, responsabile della ritenzione e dell’elaborazione di percezioni visive[2].

L’adattamento di tecniche di registrazione dell’attività neuronica della corteccia prefrontale mediante l’impianto di microelettrodi in animali attivi con normale libertà comportamentale, ha poi consentito un significativo progresso delle conoscenze. L’esecuzione di compiti con intervallo temporale (delay tasks) ha rappresentato una chiave di volta per la comprensione di alcuni ruoli elementari svolti dai neuroni prefrontali al servizio della rete che assicura una memoria di funzionamento ai processi cognitivi ordinari[3].

La comprensione dei meccanismi della WM si è inizialmente basata su questo concetto: tutta l’attività neuronica persistente che si registra durante il lasso di tempo che precede l’esecuzione di una prova con intervallo temporale si attribuisce al ruolo di queste cellule nervose nella WM[4]. Ovvero, alla partecipazione di tali neuroni ad una rete attivata temporaneamente per la ritenzione di informazione, verosimilmente per lo scopo biologico di ottenere una ricompensa. Secondo varie prove sperimentali, tale rete codifica quattro elementi, tutti indispensabili per un’efficace esecuzione del compito: 1) la memoria del compito; 2) la memoria dello stimolo; 3) la memoria prospettica dell’atto motorio che sarà eseguito; 4) la memoria prospettica della ricompensa. Tutti e quattro questi elementi sono costituenti della memoria a lungo termine che, all’inizio della prova, sono stati attivati ed aggiornati specificamente per la soluzione di un problema e il raggiungimento di uno scopo[5].

Rimandando alle trattazioni specialistiche per una rassegna degli studi sui meccanismi della WM, qui ci limitiamo a ricordare che la rete della WM si estende al di là delle aree della corteccia prefrontale in aree posteriori della corteccia di associazione, dove sono state trovate cellule della memoria. Il meccanismo centrale della WM è la riverberazione attraverso circuiti rientranti all’interno della rete che la costituisce[6]. La riverberazione attraverso il rientro può avere luogo a molti livelli, dal più semplice, all’interno di piccoli aggregati di neuroni prefrontali, al più complesso, all’interno di grandi reti che comprendono neuroni ampiamente distribuiti fra le cortecce di associazione prefrontali e posteriori[7]. Sono queste le reti corticali di ampia distribuzione che, nello stato di quiescenza, ospitano memorie associative a lungo termine e nello stato dinamico funzionano da sostrato neurale per la WM. In questo ruolo, tali reti mantengono attiva la memoria di funzionamento mediante lo scambio simultaneo e reciproco che crea continuità fra quelli che appaiono come circuiti cortico-corticali in cima al ciclo percezione-azione.

Tanto premesso, veniamo ai contenuti dello studio di Leavitt e colleghi.

I neuroni della corteccia prefrontale laterale (LPFC, da lateral prefrontal cortex) codificano le rappresentazioni della WM attraverso una sostenuta attivazione elettrica, un fenomeno che si ipotizza sia originato da dinamiche ricorrenti all’interno di ampi insiemi di neuroni interconnessi. Per verificare questa ipotesi, i ricercatori hanno impiegato sistemi di microelettrodi per studiare, durante l’esecuzione di un compito di WM spaziale da parte di macachi, l’attività elettrica negli insiemi neuronici della LPFC con la rsc (spike count correlation).

È stato rilevato uno schema di rsc accoppiate durante il mantenimento della WM, un segno di un più forte accoppiamento fra neuroni con simile sintonia e un’accresciuta inibizione fra neuroni con sintonia dissimile.

I ricercatori hanno poi usato un linear decoder per quantificare gli effetti delle strutture di alta dimensione rsc sulla codifica dell’informazione negli insiemi neuronici studiati. Il risultato ha mostrato che le strutture accoppiate da rsc potevano facilitare o compromettere la codificazione, in dipendenza delle dimensioni dell’insieme e delle proprietà di sintonia dei neuroni costituenti.

Una semplice procedura di ottimizzazione ha dimostrato che una prestazione di decodifica prossima a quella massima poteva essere ottenuta usando un numero di neuroni relativamente piccolo. Questi sottoinsiemi ottimizzati per la WM differivano maggiormente nella correlazione di segnale (rsignal) ed erano anatomicamente più distribuiti a distanza di quanto previsto dagli studi statistici delle popolazioni di neuroni totalmente registrate. Spesso, poi, i sottoinsiemi contenevano neuroni che erano scarsamente selettivi per la WM; tuttavia, accentuavano la fedeltà della codifica modellando la struttura rsc dell’insieme.

L’osservazione di Leavitt e colleghi ha riconosciuto un pattern di rsc tra i neuroni LPFC indicativo di dinamiche ricorrenti quale meccanismo per l’attività associata alla WM, ed ha accertato che la struttura della rsc può aumentare la fedeltà delle rappresentazioni di WM.

L’insieme dei dati rilevati consente agli autori dello studio di concludere che la codifica della WM da parte di insiemi di neuroni della LPFC origina da una complessa sinergia fra proprietà di codifica del singolo neurone e fenomeni multidimensionali del livello di estese associazioni funzionali di cellule nervose cerebrali.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-11 marzo 2017

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Cfr. Alan Baddeley, La Memoria Umana - teoria e pratica, p. 84, Il Mulino, Bologna 1992.

 

[2] Cfr. Alan Baddeley, op. cit., pp. 84-112.

[3] Joaquin M. Fuster, The Prefrontal Cortex, pp. 239 e seguenti., Academic Press Elsevier, 2008.

[4] Cfr. Joaquin M. Fuster, op. cit., p. 251.

[5] Joaquin M. Fuster, op. cit., ibidem.

[6] Ricordiamo che questa acquisizione era stata precorsa da un’ipotesi formulata dal nostro presidente sulla base di un modello ispirato al ruolo del rientro postulato dalla teoria di Gerald Edelman.

[7] Joaquin M. Fuster, op. cit., 269.